domenica 22 maggio 2011

"La mossa di Guzmàn", Pelagio d'Afro

Quest'oggi ho il piacere di condividere con "i miei 25 lettori" un racconto di argomento scacchistico scritto a otto mani da una delle figure più originali e creative del panorama letterario italiano indipendente: Pelagio d'Afro. Il racconto è stato pubblicato nell'antologia "Giallo scacchi", curata da Mario Leoncini e Fabio Lotti, edita  nel 2008 dalle edizioni Ediscere ed è presente anche nel numero 1/2009 della rivista Loop.  
Per chi volesse approfondire la conoscenza del singolare autore rimando al sito  http://www.pelagiodafro.com/ e al Blog http://pelagiodafro.splinder.com/ .



La mossa di Guzmán

Pelagio d’Afro

Le note del Requiem di Mozart si diffondevano, lente, nella stanza.
Le prime otto battute del Lacrimosa avevano il placido ritmo della risacca, la stessa che a volte si vedeva risalire dal balcone. L’acqua idilliaca e cristallina del mare di Cuba era talvolta argentata dal riflesso della luna che di notte vi si specchiava.
Rosita si stava spogliando al fluire della musica. Il camice da infermiera era già ai suoi piedi; ora si stava sganciando il reggiseno lasciando che i capezzoli eretti puntassero dritti verso il vecchio tetraplegico che aveva dinanzi e di cui conosceva solo il nome, Guzmán. Anni prima il direttore della clinica e la caposala erano stati chiari: non era un paziente come gli altri, quello, ma era «il» paziente; soddisfare i suoi bisogni sessuali avrebbe significato un congruo arrotondamento della busta paga.
Rosita sfilò il perizoma, lentamente, sollevando la gamba destra; poi lo scalciò via insieme agli zoccoli d’ordinanza rimanendo, stupenda, con le sole autoreggenti bianche. Il pene ottuagenario di Guzmán si stava inturgidendo, merito anche del farmaco che aveva assunto mezz’ora prima, come da prassi.
Lei improvvisò qualche passo di danza, il vecchio tetraplegico in cuor suo le passò l’interpretazione un po’ naïf ma tutt’altro che oltraggiosa. Tra l’altro, quella che ora risuonava non era più la musica eterna di Mozart ma un’appendice posticcia di un suo oscuro allievo. E intanto Rosita pensava con invidia alle colleghe del suo corso che erano riuscite ad entrare nel Balletto Nazionale e ora giravano il mondo, l’Occidente.
L'infermiera si fermò vicino a Guzmán, il che le permise  di spostare di lato il braccio con il sensore oculare, il twinkle-eye-matic: un miracolo della tecnologia, sfornato dalle migliori menti del reparto di bioingegneria dell’Imperial College di Londra, che controllava tutti i servomeccanismi preposti ai bisogni del paziente: la regolazione della poltrona, l’inquietante arto meccanico, il computer e il monitor sul quale, come sempre, compariva una scacchiera.
Guzmán abbassò lo sguardo verso di lei con un’espressione di gratitudine negli occhi; l’infermiera gli liberò il sesso aprendo la cerniera lampo mentre, fissandolo negli occhi, gli restituiva lo sguardo adorante che tributava sempre alla propria busta paga; poi chinò il capo e iniziò la prova orale.

Rivestita e sorridente, Rosita spostò la sezione a rotelle dell’alcova tecnologica del paziente, lo portò sulla terrazza e gli accese un sigaro. Si stupiva sempre di quei sigari che non aveva mai visto in nessun’altra parte di Cuba: non avevano marchio ma erano straordinariamente buoni, di sicuro i migliori che avesse mai fumato. Aspirò tre boccate per essere sicura che il sigaro non si spegnesse e poi lo infilò nel braccio meccanico che il vecchio comandava per mezzo del sensore oculare battendo le palpebre.
Tre battiti del ciglio destro, l’ultimo chiuso per... 1, 2, 3... tre secondi. Il braccio meccanico si avvicinò lento e ronzante alla bocca. Guzmán aspirò voluttuosamente. Sapeva di essere vecchio, ma nonostante i sigari i suoi polmoni erano perfetti. E non funzionavano bene solo quelli, pensò soddisfatto.
A dispetto delle apparenze, Guzmán era felice. Sempre. Una gioia perfetta permeava il suo animo. Era consapevole di vivere la vita che aveva sempre desiderato, anche se in fondo lui della vita non conosceva molto altro. Certo non doveva essere così per tutti, e forse non lo era stato nemmeno per lui. Se solo avesse potuto ricordare... Il suo passato era una nebulosa, un oggetto indistinto e sguazzante in un mare di melassa. Attraverso i messaggi scritti sul monitor del PC aveva capito di essere considerato un privilegiato, guardato con compassione, sì, ma forse anche con invidia. Quindi in fondo andava bene così. Guzmán sentiva che la sua vecchia vita era in qualche modo compiuta e che la nuova era... perfetta. Perso in questi pensieri sentiva distrattamente Rosita risistemare la stanza e svuotare le sacche dei suoi escrementi.
“Arriverà un nuovo infermiere. Jorge è andato a lavorare all’Ospedale Universitario” disse lei, interrompendo i pensieri di Guzmán e parandoglisi davanti. “Si chiama Ernesto” proseguì. “Spero che le piaccia, anche se parla un po’ troppo. Ci faccia sapere se le è gradito.” Non attese alcuna risposta da Guzmán e lo risistemò al suo posto di ape regina al centro del favo.
“Ernesto inizia domattina. Arrivederci, dottor Guzmán” concluse Rosita uscendo. Ma il vecchio paziente aveva già riportato la propria attenzione sul perno della sua vita: lo schermo sul quale campeggiava la partita a scacchi.
Il sole caldo dei Caraibi si rifletteva, festoso, sul monitor a cristalli liquidi. Un battito del ciglio destro… torre… due battiti del ciglio sinistro... in d8.
Guzmán era soddisfatto: aveva riflettuto per un giorno intero su quella mossa che ora stava comparendo in tempo reale sul PC del suo avversario russo. Sorseggiò con la cannuccia un’abbondante dose di rum: lo chiamavano solo, genericamente, Reserva, ma a detta del Direttore della Clinica (che una volta alla settimana veniva a ossequiarlo) era paragonabile al nettare degli dei.
Dopo alcuni minuti, il “blip” richiamò la sua attenzione sul monitor del computer: Boris aveva risposto con pedone in h4. Sorseggiando il  rum, il vecchio guardava le sue pedine nere e studiava il da farsi. Si trovavano ormai alla ventesima mossa, più o meno a metà partita, con uno sviluppo di pezzi ancora in equilibrio: avevano entrambi perso la regina e un alfiere (il bianco per il suo avversario e il nero per lui) ma disponevano ancora delle torri, dei cavalli e di sei pedoni a testa. Boris non aveva esitato allo scambio di regine, e ora la partita si era spostata su un piano più strategico che tattico, proprio come piaceva a Guzmán: era il momento in cui osava prendere in considerazione mosse avventate, poco ortodosse, tanto per capire come poteva andare a finire.
In fin dei conti amava il rischio, ma ancora di più la vittoria. Alle volte si chiedeva come poteva essere stata la sua vita prima dell’incidente. Gli avevano detto che era stato un medico, un chirurgo, che aveva dedicato la sua vita a curare i più bisognosi e che per questo suo credito umanitario gli avrebbero offerto tutta l’assistenza di cui aveva bisogno fino al giorno della morte.
Ma lui alla morte non pensava mai: sapeva che era lì in attesa, vicinissima, eppure sentiva di avere tutto il tempo del mondo. Con questo pensiero si addormentò.

“Buongiorno, dottor Guzmán.”
Entrò un giovane e gli si presentò davanti. “Sono Ernesto Serna, il suo nuovo infermiere.” Poi lanciò uno sguardo al monitor. “Mmmh... scacchi... molto interessante. Anche io gioco di tanto in tanto, ma questa mi sembra una partita di alto livello.”
Guzmán era diventato molto veloce nell’interloquire attraverso emoticon animati e fece comparire in un riquadro dello schermo un volto sorridente che annuiva.
“Se le mie chiacchiere la disturbano me lo dica.” Sullo schermo comparve un emoticon sorridente. “Bene, dobbiamo fare il prelievo del sangue” dichiarò Ernesto, e si mise al lavoro: si trattava di un’operazione di routine che veniva ripetuta ogni cinque giorni e che al paziente non generava alcun tipo di sensazione. Nel frattempo, infatti, Guzmán continuava a riflettere sulla propria strategia.
Trascorse una settimana in cui la partita con Boris andò avanti a rilento, al ritmo di tre-quattro mosse al giorno. Avevano mangiato un cavallo a testa e ora, apparentemente, Boris con i suoi bianchi sembrava aver costretto i neri di Guzmán a un raggruppamento, come se i soldati dovessero difendersi in un terreno reso ostile da un campo di preponderanti forze nemiche. Guzmán sapeva bene che indurre l’avversario all’espansione sulla scacchiera era fondamentale per poterne cogliere le inevitabili debolezze nelle linee di rifornimento. Stava pensando di rinforzare le retrovie con l’alfiere, quando entrò Ernesto.
“Buongiorno, dottor Guzmán; se ha un momento vorrei mostrarle una cosa.”
Guzmán fece comparire l’emoticon equivalente ad «aspetta un attimo» e valutò ancora alcune mosse a sviluppo di quella iniziata con l’alfiere; poi decise, batté le ciglia e spostò l’alfiere in a6.
“Posso?” chiese ancora Ernesto, e attese l’emoticon che annuiva.
“Bene.” Accese lo stereo, inserì un CD di disco-salsa che aveva con sé, e lo fece suonare a volume molto alto. Indicò da qualche parte verso il soffitto e avvicinò le mani alle orecchie come se tenesse le cuffie, mentre con le labbra sillabava la parola “microspie”. Quindi si avvicinò al paziente e prese a sussurrargli all’orecchio destro. “Quello che sto per dirle, dottor Guzmán, mette la mia vita nelle sue mani, ma sono contento di farlo. Io non sono un infermiere, sono un medico e ho conseguito la specializzazione in genetica presso l'università di Buenos Aires. Mi segue?”
Un’emoticon con pollice e indice uniti in cerchio nel segno universale di «okay» fu la risposta. L’infermiere fece un cenno col capo e continuò: “Mi sono fatto assumere come infermiere per giungere a lei e poter svolgere dei test. Tutto è iniziato quando il nostro presidente Fidel Castro, durante la sua ultima lunga malattia, ha detto alcune strane frasi su di lei, frasi che sono state intercettate da alcuni miei conoscenti.”
Il giovane era serissimo e si rigirava tra le mani una penna USB che collegò al computer del letto. Il tempo di aprire un programma di visualizzazione e sul monitor comparvero due mappe genetiche perfettamente uguali. Guzmán era incuriosito.
“Forse tutto questo è dovuto al mio nome, un’omonimia che mi ha sempre segnato, o forse è la prova dal fatto che a Cuba esistono ancora persone che hanno a cuore il futuro di quest’isola e non vogliono svenderla a nessuna potenza straniera, ma nemmeno farla morire d’inedia per colpa del Presidente. Noi abbiamo bisogno di un segnale forte, di un simbolo che torni a unirci, che infiammi i cubani e faccia capire al mondo che Cuba non può essere uccisa. E questo segnale è lei, dottore.” Ernesto avvicinò la mano al monitor e indicò le due mappe. “Quella di destra è ricavata dal campione di sangue che le ho prelevato una settimana fa, quella di sinistra da un campione custodito nella facoltà di medicina dell’università di Buenos Aires. Il campione di sangue di Ernesto Rafael Guevara De la Serna. Questo prova che lei, dottor Guzmán, è Che Guevara.”


Il Che restò a riflettere per alcuni minuti nella sua eterna immobilità.
Sapeva che avrebbe dovuto sbalordirsi per quella rivelazione, ma si rendeva lucidamente conto di non esserne sorpreso più di tanto. Certo, era facile, adesso, dire a se stesso di averlo sempre saputo, ma non era proprio così: era piuttosto la natura della sua amnesia che aveva amministrato i suoi ricordi, impedendo che affiorassero come scogli. La sua mente era come una nave della quale s’ignorano sia la provenienza che la meta, ma cui solo il mare calmo dà felicità.
All’improvviso, lancinante, gli tornò in mente il momento della cattura in Bolivia, la reclusione nella scuola, La Higuera, Félix Ramos…
Come era possibile? Era bastato che l’infermiere pronunciasse il suo nome?
“Ora ricordo” disse il Che con una scritta sul monitor. “Ricordo tutto.”
Ernesto sorrise: evidentemente il neurotropico che gli stava somministrando da giorni aveva sortito il suo effetto. “Lei oggi è un mito, dottore. Ed era proprio in previsione di questo che il mondo doveva saperlo morto; un eroe bloccato in un letto non diventa un’icona. Ma noi a Miami possiamo curarla e rimetterla in piedi. La lesione che la rende tetraplegico è dovuta a un enorme ematoma formatosi sul tronco encefalico e che all’epoca non poteva essere curata, ma che ora con la microchirurgia e con gli impianti di staminali verrà risolta senza difficoltà. Da quarant’anni lei è prigioniero di Fidel Castro… E sono certo che in tutti questi anni non si è fatto ingannare dalle trasmissioni televisive… potrà vendicarsi del regime illiberale che l’ha tenuta inchiodato a un letto… potrà far conoscere al mondo la verità… potrà camminare… potrà uscire da questa prigione!”
Un’altra scritta sul monitor: “Mi lasci riflettere qualche giorno.”
“Sì, certo. Naturalmente già da stasera tutti i media saranno informati della cosa: è una scoperta troppo preziosa perché qualcuno cerchi di insabbiarla. Nel frattempo voglio che si convinca dei passi da gigante che la medicina...”
Mentre Ernesto gli parlava all’orecchio, con una naturalezza che tradiva l’indole del cospiratore, il Che ebbe una visione: era lontano dalla sua isola, da Rosita e dai suoi amati scacchi. Era seduto sul palco di una sala per conferenze, vestito con la sua ruvidissima uniforme d’un tempo. Il parrucchino gli gettava le chiome sulla fronte: un’idea del suo addetto alle public relations per rinforzare l’aderenza alla sua antica immagine. Alla sua sinistra e alla sua destra volti che non conosceva, oppure che conosceva ma che ormai gli erano alieni. E di fronte a lui un’orda di giornalisti, mani alzate, matite che grattavano su taccuini, flash di macchine fotografiche. Parole, parole, e ancora parole, come se la verità fosse la puttana di chi parlava di più.


 
Poi la visione cessò, vuoi per il rigetto della mente che l’ospitava, vuoi per l’incalzare dell’odiosa disco-salsa e del blaterare al suo orecchio destro.
“... che le stia tornando la memoria del passato? Ma... si sente bene?” chiese Ernesto, vedendo il paziente sussultare per spasmi che giudicò involontari.
Non si sentiva bene, anzi, si sentiva decisamente male. Per la prima volta, da tanti anni. Questo fantasma che veniva a tormentarlo lo aveva sconvolto: che ne sarebbe stato di Guzmán? E che ne sarebbe stato del Che?
Tutt’a un tratto gli parve di non udire più quella voce che gli parlava nell'orecchio, né la disco-salsa, né altro, e si calmò. Da quella pace improvvisa si levò solo il suono della risacca, lontana, che gli sussurrava ben altre promesse. Presto avrebbe potuto alzarsi con le proprie gambe, gli diceva, passeggiare lungo la spiaggia, tuffarsi in acqua e nuotare ogni volta che ne avrebbe avuto voglia. Non più servito e accudito... libero...
Libero?
Quando Guzmàn ebbe finalmente capito come doveva agire, la voce del mare sbiadì e la stanza risuonò come prima dei soliti rumori.
“Non si preoccupi, se avverte qualche sensazione strana” proseguiva intanto Ernesto, instancabile. “È il farmaco che le sto somministrando da una settimana. Tra qualche giorno vedrà... potrà anche cominciare ad avere un po' di sensibilità alle dita, e si convincerà che... Ma ora che le prende? Ha un tic?”
Guzmán aveva iniziato a battere furiosamente  le  palpebre, in una sequenza che a un ignaro osservatore sarebbe parsa del tutto casuale ma che il sensore oculare incamerava e traduceva per la ferrea logica del twinkle-eye-matic.

“Si sente male? Vuole che chiami qualcuno?” stava dicendo Ernesto, quando il poderoso braccio meccanico lo afferrò per la gola e strinse, strinse, strinse...

Alfiere mangia Torre. C’era cascato.
Ahi, Boris, Boris...

Con un soave movimento di ciglia Guzmán ordinò al braccio meccanico di portargli la bottiglia di rum dal mobiletto dei liquori. Dopo la disgrazia il precedente attrezzo era stato sostituito con un modello avanzato, semovente su ruote. C’era stata un’inchiesta, un procedimento penale, insomma un certo polverone, tanto che lo stesso Sir John-qualcosa, direttore dello staff di progetto del twinkle-eye-matic, era venuto di persona per le scuse formali e per presentare le caratteristiche del nuovo modello.
Certo, Rosita rimaneva insostituibile e, in tutta franchezza, il rum che versava lei aveva tutt’altro sapore, pensò Guzmán. Comandò alla macchina di immergere un sigaro in quell’ambrosia, se lo fece accendere – anche questo poteva fare – e aspirò a lungo, felice. Passarono cinque minuti. Dieci.
Quindi, con una pigra strizzatina d’occhi, Guzmán riprese il controllo della scacchiera. Ecco, ci siamo. Pedone in c7, matto in due mosse. Dopo qualche minuto Boris abbandonò la partita..
Più tardi, nel buio, Guzmán sorrise.

Racconto tratto dall’antologia Giallo Scacchi, Ediscere, 2008
Pelagio d’Afro è: Giuseppe D’Emilio, Arturo Fabra, Roberto Fogliardi, Alessandro Papini


1 commento:

  1. Complimenti all'autore comunque trovo più divertenti i post. scritti da L.P. Un blog per me deve essere più divertente
    ed immediato

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